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Facce da cinema a Trieste

Gli archivi della Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte del Comune di Trieste costituiscono una fonte di inestimabile valore, valida testimonianza storica per descrivere i volti del cinema a Trieste dal secondo dopoguerra alla prima metà degli anni Sessanta.

I fotografi immortalano i volti noti di Trieste: Fulvia Franco, Federica Ranchi, Mario Valdemarin, Gianni Garko o Elio Ardan ma anche attori come Claudia Cardinale, Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Silvana Mangano e Sophia Loren, il regista Vittorio De Sica. La fotografia non dimentica le anonime presenze di chi lavora nel mondo del cinema in perenni coni d’ombra: una moltitudine silenziosa e operosa composta da attacchini, bigliettaie, maschere, pulitrici, parrucchiere, comparse e assistenti. Un’umanità silente che la fotografia salva dall’amnesia storica.

Gli scatti, talvolta aneddotici, allusivi, retorici, alcuni dotati di grande sapienza compositiva e intelligenza nel cogliere le sfumature della luce, ci lasciano un’illustrazione puntuale del complesso mondo di celluloide.

Il fotografo cattura, curioso, le emozioni, i volti, i cappellini, gli abiti del pubblico al cinema. I ruminatori di lupini come li chiama il critico triestino Tino Ranieri, poi ruminatori di popcorn. Un pubblico assolutamente simile a quello immortalato nel resto d’Italia, tutto teso verso un processo di modernizzazione sotto molteplici profili. La fotografia restituisce appieno l’agognata ricerca di una nuova identità individuale e collettiva.

La matrice linguistica di Adriano de Rota, Ugo Borsatti e dell’agenzia Giornalfoto risente dell’esperienza del cinema neorealista, raccontando senza orpelli e artifizi la Trieste di quegli anni. Il racconto dell’uomo e delle sue relazioni con il contesto sociale ed economico in cui vive non consente di affermare che siamo di fronte a fotografi neorealisti tout court, tuttavia è palese la qualità dell’aria respirata, la pregnanza della contaminazione culturale.

Anch’essi registi di scena, in grado di catturare istanti che diventano magici, grazie a un’abilità che non si estrinseca solo nel merito di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, ma come amava ripetere instancabilmente de Rota ai suoi assistenti, nella capacità di fermare sul positivo ciò che la mente ha già visto.

Traslando da Kezich, non fiori di celluloide, ma fiori d’argento, proiezioni estetiche di luce e ombra che fissano per sempre ciò che va custodito per essere preservato, guardato, interrogato, di contrasto all’assenza.

Il percorso propone un itinerario indotto dai fotografi, veri protagonisti del percorso visivo e insostituibili compagni di viaggio.

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